Il bell'ometto ritratto nel disegno soprastante è il giornalista avventuriero di origini abruzzesi Edoardo Tartarin Scarfoglio, fondatore dei quotidiano Roma e de il Mattino, ufficialmente sposato con la scrittrice napoletana Matilde Serao, ma abile conquistatore di donzelle in tutti i porti del mar Mediterraneo. Acerrimo rivale e ottimo amico del vate Gabriele d'Annunzio, al quale quasi fece lo scalpo per una questione relativa alla moglie.
Del tipo “O'sce' stai uardann a uaglion miji?”
Sicuramente non perché lo stimi, ne perché sia uno di quei personaggi che mi hanno cambiato la vita, sebbene la sua biografia potrebbe diventare un romanzo di avventura alla vecchia maniera, con tanto di incrocio di lame con indigeni africani. Nemmeno per il suo modo di pensiero rivoluzionario e progressista, visto che accusava i lavoratori napoletani di essere accattoni e svogliati, indicandoli come la vera causa della povertà della città e riteneva i giudici che indagavano sulla sua persona socialisti e imbroglioni. Neanche per la sua vita integerrima e per il suo senso di orgoglio, dato che alcune voci dell'epoca lo vogliono vicino alla camorra e nei suoi articoli non faceva altro che difendere i parlamentari napoletani che erano sotto inchiesta per associazione mafiosa. Nemmeno per la sua dedizione al lavoro, quello del giornalista, che considerava una noiosa ma necessaria occupazione per sostentarsi.
Inizio scrivendo di lui perché da quel poco che ho raccolto sulla vita di questo tipacc' mi sono reso conto che tutto quello che succede in Italia adesso succedeva anche durante gli anni in cui Tartarin è vissuto. E se calcoliamo che Tartarin è morto nel 1917, stiamo parlando che nel nostro bel paese in 100 anni non è cambiata nemmeno di una virgola.
Politici corrotti, giornalisti schierati, povertà al sud e ricchezza al nord, disoccupazione, fame e povertà affliggevano lo stivale anche agli inizi del novecento e benché (questo dedotto da alcuni scritti di Tartarin, che con veemenza e precisione pubblicava su Il Mattino) i politici fossero a lavoro “giorno e notte” per riportare il paese in gara con le altre nazioni europee, tutt'ora non sembrano ancora esserci riusciti.
Spesso guardiamo al passato come in uno specchio distorto, che ci fa apparire le cose meglio di quelle che erano realmente, e rimpiangiamo i tempi andati, che per definizione diventano “i bei” tempi andati. Ma non ci soffermiamo realmente a cercare di ricordare come erano le cose, ad analizzarle per poter capire come siamo arrivati sino al punto in cui siamo oggi.
Il cervello tende a conservare le memorie piacevoli e a scartare quelle brutte, come si fa con i fogli pieni di errori grammaticali, appallottolati e buttati nel cestino. Con il risultato che se guardiamo il nostro quaderno di temi delle elementari penseremo subito “Oh che bambino intelligente che ero, non ho fatto nemmeno un errore di ortografia”.
E nell'angolo della nostra memoria, dimenticati giacciono pile di fogli scartati, pieni di correzioni e di errori.
P.s.: In un articolo del 1907, Tartarin scrive su Il Mattino che al parlamento è appena stato introdotto il discorso sulla questione Meridionale, che verte su come riavvicinare la parte che ha subito di più dall'unità d'Italia al resto dello stivale.
Centoquattro anni dopo, secondo me, ne stanno ancora discutendo.
P.p.s.: Devo questa elaborata elucubrazione sulla visione del passato ad un libro che ho trovato in un vecchio scatolone pieno di cianfrusaglie di fine anni sessanta. Il libro è “Napoli d'allora” e raccoglie insieme agli articoli di Tartarin, stralci degli scritti di Matilde Serao, dando una panoramica esauriente per quanto cinica della Napoli degli inizi del novecento.
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